Lo scenario che mi circonda non potrebbe essere più allucinante. Il sole in certi posti sembra sorgere già a picco, da un momento all’altro, quasi a spaventare chi dorme, più che semplicemente a svegliarlo. Sembra un po' come stare nel primo film di Guerre Stellari, che poi sarebbe quello che è uscito come quarto (da alcuni considerato il quinto, se li conti in equilibrio su una gamba e con le dita nelle narici). Insomma il film dove c’è quel pianeta in cui abita il piccolo Anakin, dove si fanno le gare di astronavi tra la polvere e tutto è arido e ci sono incidenti, corporazioni, schiavisti e silenzio.
La mattina in cui arrivo dormono ancora tutti, è molto presto, mi faccio un giro ed entro a fare colazione nell’unico bar che trovo. È in un caseggiato basso costruito come tutti gli altri, come le case, come la scuola, come il municipio e il supermercato. Ogni edificio è uguale all’altro perchè tutto è stato tirato su in un giorno, quando si decise di evacuare il vecchio insediamento e venire a vivere qui, in un paese che prima non c’era e che a pensarci bene non si può essere sicuri ci sia nemmeno ora.
Avvicinandomi al bancone scopro con grande disappunto che è già finito tutto. Niente cornetti, niente brioches o paste, niente tramezzini, trecce, panini. Niente. Tutto finito, e nemmeno sono le otto di mattina. La mia faccia è inequivocabile: disperazione totale, sconforto senza ritegno. Rifletto e mi persuado che questo paese è così piccolo che i colazionanti al bar si potrebbero contare sulle dita della mano di un bambino, semmai nascesse, e di conseguenza il barista compra solo due o tre cornetti per quei pochi, soliti, avventori. E il forestiero in sovrannumero si muore di fame.
Chiedo affamatissimo se c’è qualcos’altro da mangiare e lui, indicandomi le patatine alla rosa canina e kevlar, mi domanda da dove arrivo. Gli dico che sono partito da Nova Siri, quando ancora era buio. Mentre lo dico, in un bar circondato da chilometri di sabbia e calanchi, mi accorgo che Nova Siri sembra il nome di una stella buona, di un'oasi ospitale attorno alla quale si è radunata la vita e sono nate le nuove colonie di una specie esule. Domando se c’è un altro posto aperto dove posso fare colazione e mi viene detto il nome di un paese che forse nemmeno mi ricordo.
Prendo solo un caffè, mettendo da parte l’appetito enorme che provo ogni volta che mi alzo, e chiedo al barista dove posso comprare le sigarette. Fuori è già caldo, non si muove niente. Il ragazzo dietro il bancone si gira con la faccia sorniona di quello che non si fa fare fesso. La mia evidente sorpresa e il mio irragionevole lutto per la storia dei cornetti devono avergli forse suggerito che non capisco le dinamiche di un posto del genere. Che non so niente di dove mi trovo, e come un bambino in un uno strip club, ho bisogno che mi si spieghi tutto. Mi risponde, rapido e sicuro: “Dal tabaccaio!”
I due o tre uomini che sono nel bar, vestiti da lavoro, e fino a quel momento immersi nei loro schiamazzi, si fermano e lo guardano in silenzio per un tempo lunghissimo. In quel silenzio pure io osservo la sua espressione fissa, compiaciuta e al tempo stesso indulgente.
Il ragazzo mi vede come un Jedi venuto dalle colonie per testare la sua prontezza e la sua logica, per metterlo alla prova. Oppure pensa soltanto alla mia incapacità da straniero di saper accettare la vita in posto così, anche nelle sue manifestazioni più ovvie. Come l’impossibilità di una colazione per tutti, i fantasmi del paese vecchio, o il dover nascere in un luogo che ti ricorderà ogni giorno che non arrivi da lì. E come, chiaramente, la disponibilità delle sigarette dai tabaccai.
Il silenzio si comprime e collassa in un gigantesco clamore, in cui tutti alzano la voce e cominciano a deridere il ragazzo dietro il bancone e la sua ingenuità. Lui all’inizio sorride nella frenesia generale, fino a ché non si accorge che quella nuvola di ingiurie si è gonfiata solo per piovergli addosso, e quasi non capisce.
Il mattino seguente arrivo alle sette meno un quarto e prendo l’unico cornetto alla crema, un cappuccino scuro e mi fumo una sigaretta seduto lì fuori, meditando zitto sul risveglio della forza.
Il ragazzo mi vede come un Jedi venuto dalle colonie per testare la sua prontezza e la sua logica, per metterlo alla prova. Oppure pensa soltanto alla mia incapacità da straniero di saper accettare la vita in posto così, anche nelle sue manifestazioni più ovvie. Come l’impossibilità di una colazione per tutti, i fantasmi del paese vecchio, o il dover nascere in un luogo che ti ricorderà ogni giorno che non arrivi da lì. E come, chiaramente, la disponibilità delle sigarette dai tabaccai.
Il silenzio si comprime e collassa in un gigantesco clamore, in cui tutti alzano la voce e cominciano a deridere il ragazzo dietro il bancone e la sua ingenuità. Lui all’inizio sorride nella frenesia generale, fino a ché non si accorge che quella nuvola di ingiurie si è gonfiata solo per piovergli addosso, e quasi non capisce.
Il mattino seguente arrivo alle sette meno un quarto e prendo l’unico cornetto alla crema, un cappuccino scuro e mi fumo una sigaretta seduto lì fuori, meditando zitto sul risveglio della forza.