Che non sia più la trilogia de Il Padrino e compagnia bella a rappresentare la mafia contemporanea lo sapevamo. Ma in questi giorni sembra sempre di più che la criminalità organizzata che fa base in Sicilia - e che non è solo siciliana - attinga, nella costruzione del proprio immaginario, alla cultura pop più generalista, ai consumi culturali di questi anni. Le vicende degli ultimi giorni, infatti, hanno riferimenti che sembrano presi da un sommario di Wired, o de Il Post, o da una home page di un social network a caso.
Piccola premessa. Nino Di Matteo, magistrato palermitano e pubblico ministero nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, si trova a investire tutto il proprio tempo, la propria sicurezza e, in larga parte anche la propria privacy nel lavorare a questo dibattimento che, per intenderci, è uno dei più pesanti che la Repubblica Italiana si trova a dover sostenere - e fronteggiare, a quanto pare - da quando è stata inventata. Vista la delicatezza di tutta questa storia, viste le sue competenze, e soprattutto visto il numero infinito di merde e piedi altrui disseminati ovunque - che come ci si muove si pesta qualcosa - Nino Di Matteo è in cima alla lista di quelli da ammazzare. Lo vogliono fare fuori perché sta portando avanti un procedimento in cui si tenta di dimostrare che lo Stato è sceso, o salito, a patti con la mafia (a grandi linee nel periodo in cui la mafia metteva le bombe). Un procedimento in cui si tenta di dimostrare che ci sono state, e in effetti continuano ad esserci, parti delle istituzioni, uomini di stato, carabinieri, servizi, e forze eversive di varia genesi che hanno ben pensato di compromettere la democrazia in cui tutta questa nostra Storia nazionale ha sempre creduto di iscriversi. Insomma se questo processo va avanti e si risolve con delle condanne, lo Stato Italiano non ci fa una bella figura. E questo è un aspetto piuttosto cruciale. La mafia, tutto sommato, non è quella che ne uscirebbe peggio da questa cosa. Certo, perderebbe riferimenti nel cuore del governo e dell’amministrazione pubblica, insieme alla possibilità di muoversi come crede, ma di certo non perderebbe la faccia. Alla mafia che gliene frega se poi si dice che ha collaborato con lo Stato Italiano?
- Totò!
- Eh.
- Qua dicono che hai collaborato con lo Stato! Dice la Repubblica Italiana, dice!
- Non ne so niente.
- Che li hai ricattati, che c’hai fatto cambiare le leggi, e gli ha dato pure a mangiare!
- No a tutti, però. A qualcuno.
- Totò
- Eh.
- Ti devo fare i complimenti.
- Ti ringrazio, una soddisfazione ogni tanto.
- Saluti.
- Saluti.
È lo Stato che non può permettere una cosa del genere, perché una verità di questo tipo sgretolerebbe completamente le basi delle sue istituzioni. E così, permaloso e lungimirante come ogni Stato con la mafia dentro, tenta di risolvere le cose prima che diventino problemi, o quantomeno ci prova, facendosi aiutare appena è possibile dagli amici che già c’hanno le mani sporche.
Nino di Matteo sta diventando un problema, e così si ritrova a dover fronteggiare un progetto di attentato alla sua vita in stato molto avanzato. Non vado nei dettagli, che tanto si trovano sui giornali. Però riporto gli ingredienti, che sono la cosa importante se dovete preparare un revival del ‘92:
• 150 kg di tritolo arrivati a Palermo (bagnateli con un panno caldo e nascondeteli)
• Kalashnikov e bazooka a Roma (in un cestino da picnic, per una romantica sorpresa al Pigneto)
• 2 scorte di protezione con mezzi blindati e gruppi speciali
• 1 cecchino (uno a persona)
Come dicevo all’inizio sembra che tutte queste vicende si stiano manifestando in una cornice dai riferimenti insolitamente pop. La criminalità organizzata secondo me si è stancata di fare la criminalità organizzata. E per quello che le è possibile tenta di ammazzare persone e corrompere lo Stato dando sfogo ai bisogni che la timeline di Facebook le propone, e al dilagante desiderio di essere come tutti. Gomorra e la violenza non vanno più di moda come una volta; oggi c’è il tennis, c’è la Playstation 4, ci sono il cinema di Clint Eastwood regista e la serie House of Cards. Il mafioso di oggi ama Wes Anderson.
Qualche giorno fa presso i campi del Tennis Club 2 di Palermo si è tenuta una delle partite più interessanti del Sicilia National Open. Il tennis è uno degli sport che è tornato più in voga negli ultimi anni, insieme al rugby, al ciclismo e al cake design. Tutti sport minori e anticonformisti, di cui parlare a quelle cene dove parlare di calcio è mediocre, senza accorgersi che comunque si sta passando la serata a parlare di sport.
Ed è proprio il tennis a rappresentare al meglio le vicende che ormai da decenni hanno luogo nell’isola più grande che c’è in questo mare. Nino Di Matteo arriva sulla terra rossa circondato dalla sua squadra (che come vedremo presto non è nemmeno la sua), pronto ad affrontare l’ennesima partita di un torneo che difficilmente arriverà ad una finale, ma che sicuramente è già entrato nella Grande Slam.
Anche in questo incontro le regole e la configurazione sono le stesse che già abbiamo visto in tutto il Sicilia National Open. Di Matteo gioca un singolare, dall’altra parte della rete giocano in doppio. Gli avversari insomma sono due, sono in squadra insieme, si alternano alla battuta e si danno poca confidenza, come tutti i tennisti che giocano insieme da lunga data. Anche per questa partita, come per tutto il resto del torneo, si segue il sistema del così detto “Ma mi pigghi pu culu?” secondo il quale la squadra avversaria ci mette pure l’arbitro, i commissari di linea e i raccattapalle. E assegna a Di Matteo anche l’allenatore, il preparatore atletico, il massaggiatore e il campo dove allenarsi.
Insomma la partita è difficile e delicata, ma il magistrato a quanto pare ci sa fare, è un giocatore di un certo livello. E allora la coppia stato-mafia alla fine di un tie-break molto impegnativo pensa bene che forse è proprio arrivato il momento di un placcaggio, di un calcio volante sulla rete, o di un gancio sotto la cintura; di un fallo tattico insomma. E visto che il tennis non prevede contatto fisico, assume un cecchino.
Ultimamente sui tetti di Palermo pare si apposti un uomo dalle sorprendenti abilità balistiche e dalla vista acutissima. Un uomo che gira col fucile di precisione anche quando va in farmacia o al mercato, e che per questo in città passa tranquillamente inosservato. Un uomo silenzioso e preciso, che agisce all’ombra dei suoi, ma che al tempo stesso li protegge, gli permette di procedere nella loro missione di difesa dello status quo, eliminando ogni minaccia dall’alto. Una sorta di omologo di Chris Kyle, il protagonista eroe di American Sniper, con l’unica differenza che Chris Kyle è stato un marine pluridecorato e probabilmente il cecchino di Palermo pure.
In effetti, pur ragionando sulla storia che la mafia si sta sdoganando dalle vecchie immagini e i vecchi comportamenti, pur accettando il fatto che si ispiri sempre di più ai consumi culturali del quarantenne italiano medio, che voglia votare PD e voglia assolutamente andare dalla Bignardi, pur accettando che si sia fatto un profilo su Runtastic e l’abbonamento a Internazionale, a me qualche dubbio sul cecchino mi rimane. American Sniper non si diventa così facilmente, è una cosa sofisticata, non basta la cazzimma di Scarface. Insomma, vabbè che sei mafioso e sei cresciuto con GTA Brancaccio - al netto della Playstation - dove sicuramente non ti è mancata familiarità con le armi, però per fare il cecchino con un fucile di precisione un po' di addestramento serio ce lo devi avere. Cioè magari se ci pensi bene, tu cecchino sui tetti di Palermo che vuoi sparare ad un magistrato a 800 metri, forse una scuola di tiratori scelti l’hai fatta da qualche parte. Dai, dici la verità.
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