All’inizio del nuovo secolo, prima della nuova grande depressione, fui invitato a lavorare su un nuovo repertorio di immagini che potesse raccontare la città di Milano. Scelsi, insieme ai miei collaboratori, di partire dai luoghi comuni (intesi sia come spazi che come pregiudizi), dalla loro base di verità e da tutto quello che su di essa viene edificato, e di addentrarmi in ciò che ci sembrava un tema lontano dall’immaginario della città: il verde pubblico.
A quel tempo, infatti, era difficile che il sentir nominare Milano portasse a pensare al verde e ai parchi, ai boschi e ai campi. Venivano alla mente semmai immagini di aiuole e giardini, pur sempre inserite in un tessuto iconografico fitto di industria, moda, pubblicità, televisione, finanza, cemento, nebbia.
Frequentando la città in primavera e portando avanti le nostre ricerche per tutta l’estate successiva, ci accorgemmo presto che i parchi e i giardini avrebbero dovuto partecipare, per almeno due buone ragioni, a quell’immaginario da cui erano sempre stati esclusi.
Da un lato di spazi verdi a Milano ce n’erano parecchi e a volte di molto grandi, a circondare la struttura della città in un anello perimetrale, ma anche ad abitarne il nucleo nei suoi interstizi. La mappa di quel territorio iniziò ad apparirci come una cellula, avvolta da una membrana verde, labilissima e forse discontinua, nel cui interno trovavano spazio vescicole e mitocondri dello stesso colore, quasi persi in un quel plasma di aperitivi, design e calcestruzzo in cui erano immersi.
La seconda buona ragione - e questa risulterà essere nodo cruciale, come confermarono poi i fatti accaduti successivamente - era il fatto che il verde pubblico costituiva lo strumento per lo sviluppo di quello che fu uno degli elementi più fortemente caratterizzanti dell’identità milanese - e conseguentemente di ogni esperienza che si potesse vivere in quella città. I parchi, i giardini e affini erano difatti degli enormi e prolificissimi allevamenti di zanzare.
Nella cintura perimetrale si sviluppavano aree verdi, zone umide, rigoli, stagni e laghetti. L’idroscalo, quello che grotteschamente si era sempre chiamato il mare dei milanesi, si rivelò essere con gli anni il più prolifico incubatore di zanzare del paese. Così la membrana non era lì a proteggere da ciò che c’era fuori, ma a rinchiudere ciò che conteneva. Come una grande mangiatoia al centro di un recinto serve ad abbeverare vacche e vitelli che vi ingrassano intorno, così gli abitanti di Milano soddisfacevano la sete dei miliardi di zanzare che trovavano nido e rifugio sul suo perimetro, crescendo e si moltiplicandosi.
Milano non sarebbe quella che è oggi senza il verde che l’ha circondata.
Proseguimmo con le nostre ricerche, semplicemente visive, inutilmente estetiche, infilandoci al tempo stesso, e di certo inconsapevolmente, in quella che negli anni successivi, come sappiamo, è diventata la storia dell’evoluzione.
La conferma, traumatica e vera, che i parchi erano lì non per le persone ma per le zanzare, è stata scoprire pochi anni dopo il ruolo della società SC Johnson&Son nelle decisioni urbanistiche della città. Ne iniziarono a parlare i giornali e la televisione. A Milano non erano stati mai il Comune, la Provincia o la Regione a decidere le sorti della mappa urbana, bensì la multinazionale dell’industria chimica che produce l’Autan. Fu lei che più o meno segretamente finanziò lo sviluppo di tutti i parchi e i corsi d’acqua della città. E fu lei che ebbe bisogno sempre di allevamenti nuovi e fertili.
Inizialmente, quando la cosa venne fuori, passò come una semplice seppur terribile strategia per poter vendere di più, per incrementare i profitti grazie ad una domanda sempre crescente. Più zanzare, più morsi, più Autan. Riprorevole, ma non era tutto.
Qualche tempo dopo i fatti di cronaca portarono alla luce una verità nuova, più fredda e più nitida. Lo scopo non era tanto quello di vendere di più per far più soldi, quanto quello di poter condurre una ricerca scientifica rischiosa e controvarsa con continui ed efficaci test sul campo, per altro gratuiti.
Si scoprì che l’Autan funzionava un po' come un vaccino, inducendo cioè chi ne faceva uso (e con l’andare del tempo sempre più abuso) ad assumere una piccola dose di quello che si tentava di sconfiggere. Un po' di veleno ogni giorno ci rendeva immuni da se stesso. E così più cercavamo di liberarci delle zanzare e della loro fastidiosa emofagia, più in realtà ci avvicinavamo ad esse lentamente, accogliendo la loro sete nei nostri geni.
Ciò che c’era dietro nascondeva ragioni che ancora oggi, dopo decenni, non sono state del tutto chiarite. Sappiamo che Autan era un piano evoluzionista, che vedeva nel progresso biologico la chiave di volta del potere e della salvezza della specie. Sappiamo che era un progetto pilota condotto da un piccolo nucleo di ricerca, in origine segreto, i cui risultati furono ben più grandi di quelli che avrebbe saputo gestire. Sappiamo che a Milano le persone utilizzarono sempre più Autan, parallelamente alla crescita del numero di zanzare intorno alla città, diventando ogni giorno più simili a chi cercavano di allontanare, e sentendo dentro sempre di più ciò che volevano vincere, la sete di sangue.
Quando in un agosto di qualche anno dopo ci fu il primo caso di morso alla gola - da parte di un designer e ai danni di una giovane studentessa - a Porta Genova, tutto ci sembrò impossibile da credere, e sempre più chiaro. Ci parve ovvio, era nell’aria da tempo in una città come quella. A Milano c’erano i vampiri, e fu questo il luogo comune più bello da cui non riuscimmo mai ad uscire.
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